Forse farei lo stesso.
L’assassino ritorna sul luogo del delitto come il poeta si muove tra le stanze dei suoi ricordi, ha scritto qualcuno.
Pur non essendo (ancora) poeta e (ancora?) un assassino, il mio strano giugno duemila(maledetto)venti mi riporta con sorpresa, dopo cinque anni, tra queste pagine virtuali. Un movimento talmente inaspettato che può, addirittura, essere testimoniato dalla necessaria procedura per il “recupero credenziali”.
L’occasione che ha fatto traboccare il vaso arriva da un compleanno, anzi da un genetliaco, come ho imparato a scrivere durante questi cinque anni, allo stesso modo di come ho imparato a sostituire nosocomio all’oramai consunto e triviale ospedale in questi, lunghissimi, quattro mesi. Il genetliaco a cui mi riferivo, dunque, è stato ieri quello del signor Guccini Francesco, venuto nella luce della Modena del Quaranta.
Per ventinove trentesimi della mia vita vissuta, io il signor Guccini, che ieri è divenuto ottantenne, l’ho sempre avuto sulle palle, è necessario che io lo confessi a cuore aperto. Ed i motivi non sono pochi.
E cioè perché da giovincello il rock, il punk ed il rap mi mantenevano a debita distanza dai cantautori in chitarrina che, appunto, di palle sapevano farne due di numero, ma solo come minimo. E poi perché «tra i due è sempre meglio De Andrè», per quel testardo e mai del tutto sopito viziaccio che negli anni ci interroga con la doverosa scelta tra Beatles o Rolling Stones? Destra o Sinistra? Menù di terra o di pesce? e così via di seguito. E per quelle inguardabili camicie a quadrettoni e scacchi, che tradivano il pile anche durante le interviste estive, fastidiose ed infeltrite anche al di là di uno schermo. Ed infine quella erre, quella sgraziata erre moscia che grattava come un gorgoglìo grasso di colluttorio.
Poi una volta mi sono perso. Non perché fossi finito chissà dove, ma perché le luci intorno si erano come abbassate tutte nello stesso momento, come se si fossero accordate dopo una cospirazione alle mie spalle. Tra gli altissimi palazzi di domande e dubbi, cominciai a rovistare tra libri, immagini e suoni per trovare, finalmente, anche una sola e leggera parvenza di quiete. Ma niente.
E poi, durante un’altra pigra serata sprofondato in uno zapping sprovvisto di orizzonti di senso, caddi su questo signore. Camicia a quadri, manco a dirlo. Stava cantando. Erre moscia compresa nel pacchetto, ovviamente.
Eppure qualcosa si lanciò verso di me.
Il signor Guccini, con la chitarrina stonata, la camicia a quadri non stirata e la erre che strusciava a terra, stava raccontando. Ascoltai una storia d’amore ed odio profondo, una linea perfettamente solcata tra la mancanza più profonda che sembra togliere il respiro, e la liberazione che invece fa respirare a pieni polmoni. Piccola città tratteneva nei propri spazi le parole che non sapevo nemmeno stessi cercando.
se penso ad un giorno un momento
ritrovo soltanto malinconia.
È tutto un incubo scuro,
un periodo di buio gettato via
E fu quello solo un timido inizio.
Con la calma indispensabile e dovuta, e che è stata ormai del tutto sottratta nell’ascolto liquido della musica, divenne necessario e piacevole per me infilarmi tra le pieghe dei suoi versi, ritrovandomi non di rado come in un vestito cucito su misura. Rimasi per ore sotto la sua pioggia amica, capace ogni volta di ricordarmi il tempo che passa con Farewell, l’orgoglio di non tradire mai se stessi con Quattro stracci, il senso del resistere di Quello che non, la santa strafottenza di Cirano e tanto altro ancora. Ed alla fine Vorrei mi arrivò come fosse scritta per me solo, coronando il tutto e regalandomi, ad ogni ascolto, la bellezza ed il pudore. Divenne abituale il suo tono di voce pronto a tenermi compagnia, il suono della chitarra capace di arricchirsi con le imperfezioni, e persino quella erre moscia divenne, ascolto dopo ascolto, confidenziale, domestica, mia. Così come quelle camicie talvolta troppo grandi eppure tanto comode nella loro misura, pronte a riparare dal tempo più freddo e a smanicarsi con il rialzo delle temperature.
Al ritorno da quei giorni trascorsi in penombra, alle luci finalmente riaccese e ritrovate, se ne era aggiunta un’altra che diceva di conoscermi negli slanci eroici così come nelle cadute violente sul pavimento, forse addirittura meglio di me stesso.
E cosa dovrebbe fare di diverso la poesia, capace di dare a lei stessa (e quindi anche noi) seconde ed inaspettate possibilità?
Ed è per questo che il suo compleanno è adesso come quelli delle persone alle quali si vuole il bene più sincero, di famiglia, che verrebbe quasi la voglia di infilarsi in macchina con una bottiglia di vino ed arrivare fin su a Pavana solo per fare quattro chiacchiere, e congedarsi magari nel cuore della notte con un “Tanti auguri, maestro ed amico”, lasciato sul portone.
A tutto questo pensavo, andando a comprare un’altra, comodissima, camicia di pile a quadrettoni.